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Fuorisede fuori stagione perché appartengo a tutti i posti che amo

Gestire un’esperienza associativa a Reggio Calabria da fuorisede significa spesso ribadire che apparteniamo a tutti i posti che amiamo e che contribuiamo a costruire, anche a distanza.

 

“E tu che ci fai qua?”

Me lo dicono in tanti ogni volta che torno a casa. Si, perché qualche giorno mi trovavo a casa mia – in Calabria Saudita per intenderci – fuori stagione: non era Natale, Pasqua o agosto. Eh si sa, un fuorisede fuori stagione  a casa sua non si è mai visto.

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Sono tornata perché una realtà associativa di cui faccio parte da tanti anni e con la quale ho costruito un bellissimo percorso di crescita, ha festeggiato i suoi primi 10 anni. Anche se da circa due anni sono tornata a vivere a Bologna, sono presidente di un’associazione culturale di Reggio Calabria, oggi meno attiva di un tempo ma che a modo suo ha aggiunto qualcosa in una città che di consumo critico aveva sentito parlare poco da parte di pochi altri avanguardisti (con i quali peraltro adesso collaboriamo). Ho contribuito a fondare GAStretto e poi, assieme all’associazione Magnolia che già da tempo era operativa, abbiamo richiesto l’assegnazione di un bene confiscato. Ce lo hanno consegnato distrutto, buio, sporco in un quartiere non troppo lontano dal centro città, ma senza identità.

Era il 2011 e da allora non ho mai lasciato davvero la Calabria, anche se ho viaggiato e ora sono lontana.

Sono andata e tornata più volte, provando sempre a mantenere rapporti e collaborando a distanza. Ho provato a fare la differenza e a dire la mia, a cambiare idea, a conoscere gente, a sudare, a verniciare muri, a comprare materiale, a pulire i pavimenti, a lucidare, a mandare newsletter, a passare gli arnesi di lavoro all’amico elettricista, ad informarmi sui movimenti della città, a propormi per fare un comunicato stampa last minute perché i nostri eventi meritano di finire sul giornale.

Insomma, anche se so che la domanda retorica “E tu che ci fai qua?” non è mai detta con cattiveria, mi destabilizza un po’. Come se il fatto di vivere in un’altra città mi staccasse automaticamente le radici da un luogo che ho creato anche io con mani, testa e cuore. Come se il fatto di non poter essere presente a tutti gli eventi durante l’anno, mi togliesse il diritto di essere considerata parte dello staff. Laboratorio Radici è e resterà sempre casa mia. Non c’è bisogno di dimostrare nulla a nessuno, non serve tirar fuori il CV associativo. Con alcuni quelle esperienze sono condivise, con altri lo saranno.

 

Nel 2014 sono tornata a Rc con l’obiettivo di restare, volevo creare una cooperativa dall’esperienza di volontariato ed essere padrona del mio lavoro. Sono abbastanza capace, presuntuosa e testarda, ma non abbastanza da far tutto da sola. Per creare un’attività non bastano idee, senso pratico e determinazione, serve soprattutto la squadra giusta di persone che condividono la stessa visione di insieme. Inutile dire che quest ultimo elemento in quel momento mancava. Dopo mesi a casa con i miei, decido di partire e “dare un’occhiata su”. Trovo qualcosa. Resto a Bologna, città che amo e che mai rinnegherò.
Non ci sono rimasta sbuffando, ma ho deciso di provare a costruirmi un nuovo futuro professionale. Seppur sprofondando nel precariato, ci sono in parte riuscita. Sono orgogliosa di me. Sono partita, e continuerò a farlo, ma testa e cuore restano tra ficarazzi e palazzi non finiti, strade incasinate e parchi mancanti.  

 

Gli artisti trovano sempre le parole giuste al posto nostro, è il loro compito. La sera del 30 settembre al Laboratorio Radici tre amici sono saliti sul palco a raccontare la nascita di Magnolia e da quel palco hanno detto una frase importante

 

“Parti se devi partire, ma COME parti?”.

 

Si parlava di giovani che fanno le valigie dal Sud, di case vuote, di svuotamento di risorse dai nostri territori. Si parlava anche di me insomma.  Vivo a Bologna e amo quella città, ci rimango per tante ragioni che non è necessario spiegare, sono scelte personali, ogni emigrazione è diversa. I cliché mi stanno stretti. A Reggio Calabria ho creato qualcosa prima di decidere di partire l’ultima volta, col cuore che grondavaPago l’affitto lì e mi manca la mia casa al mare dove penso che un giorno potrei trasferirmi, entro in un circolo culturale in centro a Bologna e penso “potremmo fare una cosa così bella anche al Laboratorio Radici!”, ascolto un gruppo e penso che vorrei suonasse da noi. Mi viene un’idea, leggo un bando di finanziamento e vorrei riuscire a scrivere un progetto e vincere tanti soldi per lavorare giù come si deve. Faccio la spesa al mercato contadino e penso alla Fiera della Decrescita a Reggio Calabria. Vedo il festival di Buskers e penso che non ho mai visto una edizione del Calabria Buskers Festival. Insomma, io in Calabria ho una casa oltre quella dove vivono i miei genitori, ho costruito qualcosa che và aldilà delle vacanze mordi e fuggi.

Ogni volta che i miei amici organizzano eventi e io non posso esserci, sto male. Continuo a fare la mia vita, ma mi sento spappolata. Non bastano le telefonate con gli amici di una vita che hanno condiviso con me sudore, progetti, discussioni, organizzazioni di eventi. Loro in parte capiscono, ma mai del tutto. Ogni volta che torno – e pochi sanno quante volte penso di tornare davvero e quante volte ci provo praticamente – è come ricominciare da capo. Come se tutto quello che ho costruito negli anni si fosse dissolto nel nulla, nell’oblio cittadino. Come se dovessi continuamente raccontarmi alle facce nuove, giustificare la mia presenza, ri-badire che tra i muri di quell’edificio c’è una grossa parte di me.

 

Non so se tornerò a vivere a Reggio Calabria un giorno, non so neanche se Laboratorio Radici durerà per sempre, me lo auguro ma non importa. Resterà comunque un luogo che avrà lasciato il segno in città, come lo ha lasciato dentro di noi che l’abbiamo costruito e condiviso con tanti e tante.

 

Sentirmi dire “e tu che ci fai qui?” mi fa sorridere e piangere al tempo stesso perché mi spiazza e mi tira fuori tutto questo, non solo perché continuo sempre a cercare unpostonuovo, ma anche per una ragione più semplice: la consapevolezza che non è la città che abitiamo da sola a creare o meno le condizioni più adatte per noi. Sono le nostre decisioni a farlo, i rischi che ci assumiamo, i progetti che proviamo a realizzare. Perchè bisogna almeno provare, solo in questo modo possiamo appartenergli davvero.

 

Forse dovremmo chiederci più spesso: che segni abbiamo lasciato o lasceremo nei posti che amiamo?

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